Testo
- Anno: 2004
- Tecnica: Acciaio inox a specchio
- Dimensioni: 100x77x6 cm
- Provenienza: Dono dell’autore
- Ubicazione: Palazzo Caiselli, Sala del Lampadario
- Autore: Riccardo De Marchi - Mereto di Tomba, 1964
L’operazione principale di De Marchi è quella di praticare una serie di impressioni più o meno regolari su supporti metallici. Si tratta di un lavoro che rompe con l’esperienza pittorica dell’artista esercitata negli anni Ottanta e Novanta, caratterizzata da una pittura fatta di colore materico e di sgocciolature sparse sulla tela. Il passaggio dalla tela alla superficie metallica è data dalla volontà dell’artista di compiere un attraversamento della superficie che sia non solo simbolico ma anche fisico. Da qui il passaggio a supporti come il piombo, materiale più o meno malleabile, e l’acciaio, preferito per la brillantezza e lucidatura della superficie.
L’acciaio inox, un metallo inossidabile che mantiene inalterate le sue caratteristiche nel tempo, è lavorato a specchio, in modo da riflettere ciò che ha di fronte a sé; su di esso l’artista incide dei buchi come a voler dimostrare qualcosa che esiste oltre alla profondità fittizia dello specchio. È un rimando allo spazialismo di Lucio Fontana, con la cui opera De Marchi dichiara di voler dialogare. Lo specchio riflette l’immagine dell’osservatore, deformandola e mortificandola con i fori che ne indicano l’attraversamento. L’identità riflessa viene così compromessa.
Dal concetto di spazio metafisico proprio di Fontana, l’artista passa alla concretezza della “scrittura”. Una scrittura arcaica fatti di segni dati per computo, in infinito attraversamento dello spazio. I numerosissimi fori si susseguono in file orizzontali, quasi a voler comporre un alfabeto muto, misterioso e personale, comunicabile a pochi eletti. Le opere mostrano una scansione di vuoti e pieni simili paragrafi che si succedono intervallati da pause, in una vera e propria impaginazione di testo. In alcune opere i “testi” sono scolpiti su pilastri, simili a monoliti, come in Ingombro (2003), o, addirittura, su fogli di acciaio semi-arrotolati come pergamene e appesi alla parete, come in Testi per nulla (2002).
Al di là del fatto di costituire una scrittura arcaizzante, il foro si pone nell’opera di De Marchi come tratto dal significato indefinito; non è importante il senso, quanto l’essere indelebile e irreparabile. In quest’ottica, il foro va inteso come traccia che attesta l’esistenza dell’artista nel mondo.