Percorsi di sapienza

Anno di creazione 1995
Tecnica Acrilico su tela
Dimensioni 280x145 cm
Provenienza Dono dell’autore, 2008
Ubicazione Palazzo Antonini-Cernazai, Sala lettura ex Biblioteca di Storia
Autore Giorgio Celiberti (Udine, 1929)

La visita nel 1965 al lager di Terenzin, nei pressi di Praga, lascia in Celiberti un segno indelebile sulla sua arte, di cui si sarebbe sentito l’eco su tutta la produzione successiva.  In quel luogo tragico migliaia di bambini ebrei tracciarono, prima di trovare la morte per mano nazista, disegni, frasi e graffiti vari quali testimonianze del loro flebile passaggio. La pittura di Celiberti diventa, dunque, essa stessa graffito. In opere come Ricordo di prigionia (1969) e Calendario di prigione (1977) i segni incisi, le croci, segnacoli di uno stato perenne di angoscia esistenziale, si presentano come tacche impresse giorno dopo giorno, a computare il passaggio inesorabile del tempo.

Anche l’osservazione delle antiche vestigia della necropoli romana di Porto, vicino Fiumicino, e dei siti archeologici di Aquileia e Cividale, da cui deriva il periodo dei Muri Antropomorfi, rientra nella riflessione dell’artista sui manufatti, sui resti e sulle pietre quali testimonianze di culture trapassate. In un’intervista, l’artista chiarisce questo aspetto della sua arte: «Sto sempre all’erta per ciò che mi domanda la mia pittura: un segno su un marmo, una striscia di mosaico, un coccio, una parete affrescata, un vecchio monumento. Veramente non c’è neppure tanto bisogno di andare lontano da Udine, in questo Friuli da Cividale a Grado, da Zuglio a Venzone, natura e pietre, fiumi e storia fanno una tale ressa … Forse perché a me piacciono […] le vecchie cose che affiorano, le scritte sui muri, i muri stessi nelle loro impensabili stratificazioni di tempi, le immagini graffite e rilevate, la presenza dell’uomo, del suo respiro» (Alcide Paolini e Giorgio Celiberti, Dialogo con un pittore, in Celiberti 1965-1980. Quindici anni di pittura, Palazzo Torriani, Gradisca d'Isonzo, 27 giugno-30 settembre 1980, [p. 17]). In Muro arcaico (1979) e nei Reperti archeologici, l’artista reinterpreta la trama dell’opera reticolata romana e si serve della tecnica dell’affresco per imitare l’effetto visivo delle murature, come se il loro intonaco fosse stato strappato per trasportarlo sulla tela. Anche nella scultura, Celiberti indaga quel residuo di coscienza collettiva che permea il lascito dei popoli in steli, lapidi e ruderi.

L’opera in esame appare simile a una parete sulla quale le ere storiche sembrano aver lasciato il loro segno tangibile; simile a muri scrostati, esposti inermi sotto il sole cocente, sottoposti al lento processo di erosione operato dal vento e dalle intemperie, lascia trasparire ciò che normalmente è celato alla vista. Gli strati di colore si sovrappongono sulla tela in diverse stesure e poi raschiati con le spatole.

Il dipinto cela una scomposizione/ripartizione in riquadri, come dei tasselli uniti a formare un puzzle complesso, che paiono regolare il lavoro, apparentemente impulsivo, degli strumenti di lavoro. Il segno della X si ripete più volte sul quadro in modo più o meno evidente, in alcuni punti esplicitamente tracciata con colore rosso sangue, come un marchio di dolore, in memoria perpetua di travagli remoti mai dimenticati.